Impossibile dire quando saremo liberi dall’incubo pandemia. Quello che possiamo fare è guardare agli esempi che ci arrivano dalla storia.
Il coronavirus SARS-CoV-2 che destino avrà? Rimarrà con noi in forma più leggera, svanirà del tutto o, semplicemente, impareremo a conviverci? Difficile rispondere. Se è vero che la nostra maggiore speranza rimane quella di un vaccino efficace, gli storici concordano sul fatto che, probabilmente, la fine sociale arriverà molto prima di quella medica.
Secondo Allan Brandt, uno storico dell’Università di Harvard, «non sconfiggeremo il virus da un giorno all’altro. Definire la fine dell’epidemia sarà un processo lungo e difficile». In altre parole, una pandemia può terminare non perché il virus abbia davvero cessato di circolare tra le persone, ma perché la popolazione è stanca di vivere nel terrore del contagio e decide di non pensarci più. La storia ci insegna che, il più delle volte, una malattia finisce dal punto di vista sociale prima che medico – e anzi, in alcuni casi non svanisce mai davvero.
La morte “nera”
Nel corso dei secoli si sono susseguite tre grandi ondate di epidemie di peste bubbonica: la Peste di Giustiniano, nel VI secolo; la Peste Nera, nel XIV secolo; e l’epidemia di peste diffusasi tra fine Ottocento e primi del Novecento. Tuttavia la peste non finì mai davvero: forse il batterio che la causava mutò diventando meno mortale, oppure i ratti che ne erano portatori iniziarono a vivere più lontano dagli uomini, ma ancora oggi vi sono dei rari casi di peste (non più mortali), che vengono curati con normali antibiotici.
La vera fine fu il Vaiolo
Bisogna invece ringraziare (anche) la medicina per aver messo la parola fine a un’altra tremenda epidemia, quella di vaiolo: grazie a un’efficace campagna internazionale di vaccinazione di massa, la malattia venne dichiarata ufficialmente sconfitta dalla OMS nel 1980. Tuttavia, furono anche alcune caratteristiche del virus a rendere più semplice l’eradicazione: il Variola virus infatti non aveva un ospite animale dal quale potesse avvenire il salto di specie (o spillover), e per questo una volta eradicato non poté più diffondersi; inoltre i sintomi dell’infezione erano molto evidenti (al contrario della CoViD-19, i cui infetti sono spesso asintomatici), per cui era più facile tracciare e isolare i contagi.
L’influenza, una mutazione costante
Un centinaio di anni fa, il mondo che si stava riprendendo dalla brutalità della Prima Guerra Mondiale si ritrovò ben presto “in trincea” contro un nemico invisibile e letale: l’influenza spagnola, la prima pandemia moderna causata dal virus H1N1, che tra il 1918 e il 1919 uccise tra i 50 e i 100 milioni di persone (il 5% della popolazione del pianeta). Il virus svanì poco a poco, mutando in una variante della classica influenza stagionale. In seguito si successero diverse epidemie di influenza, come l’influenza di Hong Kong del 1968, chiamata così prima che la OMS si dotasse di precise linee guida in materia di nomi di malattie. Anche quel virus mutò, e rimase tra noi come influenza stagionale.
Il virus dell’influenza cambia leggermente ogni anno, e le piccole mutazioni nelle proteine sulla sua superficie non vengono riconosciute dai nostri anticorpi: è il motivo per cui l’influenza colpisce più volte nel corso della vita. Ma ogni tanto capita che le mutazioni cui va incontro il virus siano più importanti, oppure che un nuovo virus emerga dall’ibridazione di due diversi ceppi che hanno infettato uno stesso ospite.
In questo caso, il sistema immunitario delle persone è impreparato: i contagi si diffondono molto più rapidamente e capita che a morire di influenza siano anche persone giovani e sane. Chi sopravvive acquista immunità contro quel virus, che a sua volta diventa uno di quelli “normali” in circolazione nell’influenza stagionale. Fino a quando di nuovo non capita che ne emerga un altro così diverso da poter scatenare una pandemia.