Il coronavirus, o Covid-19 come è stato ribattezzato, mercoledì 11 marzo 2020 è ufficialmente diventato una pandemia. L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha sciolto le riserve dopo che i contagi si sono verificati in ogni parte del mondo, in tutti i continenti: Europa, Asia, Africa, America, Antartide e Oceania. Non è un caso che la parola pandemia derivi dal greco pandemos, che significa “tutta la popolazione” (demos significa popolazione, pan significa tutti).
L’errore della nostra era è stato credere di essere inattaccabile, che le malattie infettive fossero ormai controllate e quasi del tutto eliminate. Un’era dominata da malattie non contagiose, dominabili come quelle tipiche dell’invecchiamento. Beh, oggi possiamo dire che è stato un calcolo sbagliato, dettato dal positivismo tipico di una popolazione globalizzata e “del benessere”. I microbi che credevamo battuti possono riemergere, in assenza di politiche sanitare efficienti anche nelle aree meno fortunate del mondo. E nuove malattie possono evolvere, emergendo da ospiti animali, proprio come hanno fatto il nuovo coronavirus e l’Ebola.
Come si arriva a una pandemia
I presupposti fondamentali sono la contemporanea presenza di numerose sorgenti di infezioni in diversi punti del mondo, la particolare resistenza e aggressività dell’agente patogeno e la facilità di trasmissione diretta o indiretta del virus. Tutte caratteristiche che il coronavirus ha dimostrato di avere, alla luce della crescita esponenziale dei casi e della diffusione a macchia d’olio del contagio. Non è tanto la gravità della malattia a decretare la pandemia, quanto la diffusione e la sua rapidità: una volta dichiarato lo stato di pandemia, ogni Paese deve mettere a punto un piano pandemico da aggiornare sulla base delle linee guida dell’Oms. La situazione è complicata dal fatto che è possibile che alcune persone possono contrarre il virus senza sintomi: inconsapevoli di averlo, si muovono normalmente ed entrano in contatto con persone a cui di fatto possono passarlo, pur non subendo le conseguenze dell’infezione
Una storia di pandemia
Se ci limitiamo al nostro secolo, il coronavirus è la seconda pandemia, comparsa 11 anni dopo la pandemia dell’influenza suina. Ma la storia delle pandemie inizia con la Peste del Trecento, partita intorno alla metà del 1300 nel nord della Cina si diffuse in Siria estendendosi alla Turchia asiatica ed europea per poi raggiungere la Grecia, l’Egitto e la penisola balcanica. Nel 1347 arrivò in Italia, prima in Sicilia e poi a Genova. L’anno dopo il contagio, dall’Italia, passò in Svizzera e poi nel resto d’Europa, Francia, Spagna, l’Inghilterra, la Scozia e l’Irlanda. Secondo le stime moderne, la peste nera uccise almeno un terzo della popolazione del continente, provocando quasi 20 milioni di vittime e cambiando per sempre la storia.
Se veniamo al 1900, incontriamo la pandemia del 1918–1919 (l’influenza spagnola) che secondo le stime, colpì un terzo della popolazione mondiale. La malattia aveva una letalità maggiore del 2,5% e fece registrare circa 50 milioni di decessi. Iniziò nell’agosto del 1918 in tre diversi luoghi: Brest, in Francia; Boston, nel Massachusetts; e Freetown in Sierra Leone, un ceppo di influenza particolarmente violenta e letale di cui ancora oggi non si conoscono le origini.
Analizzando la curva della mortalità dell’influenza del 1918, il picco di mortalità si piazzata nelle età centrali, tra gli adulti tra 25 e 44 anni. Il 99% dei decessi furono a carico delle persone con meno di 65 anni, cosa che non si è più ripetuta.
Il virus del 1918 è stato probabilmente l’antenato dei 4 ceppi umani e suini A/H1N1 e A/H3N2, e del virus A/H2N2 estinto, detto anche influenza asiatica (1957-1960). L’Asiatica del 1957 rese evidente, contrariamente al passato, il fenomeno di polmoniti primariamente virali. Contrariamente a quanto osservato nel 1918, le morti si verificarono soprattutto nelle persone affette da malattie croniche e meno colpiti furono i soggetti sani.
Nello stesso anno fu preparato un vaccino che riuscì a contenere la malattia, e infatti il virus dell’Asiatica scomparve dopo soli 11 anni, soppiantato dal sottotipo A/H3N2 Hong Kong o influenza spaziale (1968–1969). Fu un’influenza aviaria, di tipo A, dovuta al ceppo H3N2, molto somigliante all’influenza Asiatica del 1957. Proprio per questo, e per lo sviluppo di anticorpi nella popolazione, fece meno vittime di altre pandemie. In Giappone, per esempio, le epidemie furono saltuarie, sparse e di limitate dimensioni fino alla fine del 1968. Il numero stimato di decessi, secondo il Center for Disease Control and Prevention (Cdc), fu di 1 milione in tutto il mondo.
L’influenza pandemica
Prima del Covid-19, l’unica pandemia influenzale del 21esimo secolo è stata quella del 2009: quella che oggi viene chiamata, impropriamente, “influenza suina”, causata da un virus A H1N1. Un virus dalle caratteristiche molto peculiari mai identificate prima, né negli animali né nelle persone, che fece la sua comparsa negli Stati Uniti e si diffuse molto rapidamente nel resto del mondo.
Gli studi effettuati sull’influenza pandemica indicano che nel primo anno di pandemia, l’influenza pandemica fece dalle 100mila alle 570mila vittime, e che la maggior parte delle vittime (l’80%) avevano meno di 65 anni, contrariamente a quanto accaduto per le altre epidemie stagionali di influenza.
Quella del coronavirus è, quindi, la seconda pandemia del mondo globalizzato. Ancora non è chiaro esattamente quando abbia iniziato a diffondersi: in Cina, nella provincia dell’Hubei, sarebbe comparsa a dicembre, ma alcuni esperti ritengono che alcuni casi possano essere ancora precedenti. I primi casi hanno coinvolto i lavoratori del mercato del pesce di Wuhan, in cui sono in vendita animali vivi, e proprio dalla macellazione degli animali il virus avrebbe fatto il cosiddetto “salto”, con tutta probabilità dai pipistrelli.
Il virus è stato isolato nel giro di poche settimane e ricondotto alla sequenza genetica della Sars, il coronavirus da sindrome respiratoria acuta grave all’origine dell’epidemia del 2003. A oggi sono in corso, a velocità esponenziale, studi sul Covid-19 in primis per individuare terapie adatte (il Remdesivir, farmaci efficace contro l’ebola, si è dimostrato efficace anche contro il Covid-19) e un vaccino, ma è stato accertato un elevato tasso di contagiosità tramite le esalazioni e per contatto.
Virus, non solo una questione di medicina
Le malattie infettive non riguardano solo la scienza e la medicina. Sono fattori troppo importanti per capire la storia. Hanno un impatto sulle vicende dei popoli comparabile a quello di rivoluzioni, guerre e crisi economiche. Il loro decorso è influenzato dalle leggi scritte e non scritte su cui si basano le relazioni tra gli uomini lasciando un segno nella politica, nella società, nella cultura.
Prendiamo come esempio il colera che colpi la Francia nel 1832. Uccise quasi 20mila abitanti di Parigi. Sul trono c’è un re poco amato, Luigi Filippo, tant’è che si sparse la voce che abbia fatto avvelenare i pozzi. C iò fece scatenare violenze e sommosse dettate dalla paura e dalla rabbia, alimentando la repressione in molti decenni successivi (la rivoluzione del 1848, la caduta della Comune di Parigi e così via). Da qui il ruolo cruciale giocato dai microbi nella storia.
Forse oggi non ce ne accorgiamo, ma le decisioni di questi giorni e mesi avranno conseguenze storiche, sociali e politiche che superano la sfera della medicina e della salute. Quando l’attuale epidemia da coronavirus (la cosiddetta Covid-19) si sarà spenta, il rallentamento economico causato dalle misure di contenimento e dalla paura collettiva sarà materia di analisi per storici ed economisti.
I sentimenti anti-cinesi e anti-italiani diffusi a causa del coronavirus avranno reso più difficile la convivenza tra le persone e rimarrano impressi anche post epidemia. E chissà quali dinamiche carsiche si saranno innescate nel gigante asiatico a seguito dell’enorme cordone sanitario attorno alla provincia in cui sorge Wuhan, imposto da Pechino con misure coercitive. Se la realtà assomigliasse alle teorie, la quarantena e l’isolamento potrebbe fermare l’avanzata microbica. Ma in pratica non è detto che sia così. «I risultati delle misure prese dal XV al XXI secolo sono scoraggianti. I protocolli attuati contro peste bubbonica, colera ed Ebola hanno sempre fallito: il loro dispiegamento peggiora la diffusione della malattia perché secondo molti studiosi e storici amplificano la paura, provocano tensioni sociali e contraccolpi economici.
La sottovalutazione sarebbe un grave errore, ma anche il panico può fare il gioco della Covid-19. Nel XIV secolo fu la paura a spingere i genovesi a lasciare precipitosamente la città nel tentativo di sfuggire alla peste. In realtà la portarono con sé, come è accaduto altre volte nella storia delle epidemie. La paura ha condannato per millenni all’isolamento i malati di lebbra, distruggendone la vita più del batterio stesso, e lo stesso sentimento induce tanti a nascondere le proprie infezioni, trasmettendole però a catena ad altri.
Sono innumerevoli i casi in cui la paura degli untori si è sommata a quella del morbo, come nella peste manzoniana, e la ricerca di capri espiatori ha fatto altre vittime. Spesso a essere accusati di diffondere un male sono coloro che appaiono socialmente diversi. Nella peste del Medioevo furono gli ebrei, oggi i sospetti aleggiano sul capo di chiunque abbia origini asiatiche. La guerra tra uomini e microbi va avanti dalla notte dei tempi, eppure a partire dalla metà del secolo scorso c’è stato un periodo in cui l’umanità si è illusa di avere la vittoria in pugno.